18 gennaio 2008
“MIGRAZIONI”
LA BABELE DELLE LINGUE
Relatore prof. Sergio Maria
Gilardino
Si narra
nella Thorà che gli uomini decisero di costruire una torre così alta che
sarebbe arrivata al cielo, allora residenza esclusiva della Divinità. La commistione
materile tra terra e cielo avrebbe − si pensava − posto fine alla
distinzione tra umano e divino, tra limitato e mortale e illimitato ed eterno.
Ed iniziarono i lavori. Il testo biblico ci dice che la commistione delle
lingue, e il conseguente disastro dovuto all’incomprensione e al caos che ne
seguì, avvenne solo a lavori iniziati, anzi quasi ultimati, quando cioè la
Torre di Babele già toccava le nuvole e faceva dunque prematura concorrenza ai
moderni grattacieli.
Quello
che il testo biblico non ci dice è il perché della tardiva commistione delle
lingue. Domanda: perché non in fase di concertazione politica tra vari popoli,
perché non in fase di progettazione tecnica tra i vari architetti e capomastri?
La risposta la troviamo nei dotti commentari alla Thorà, cioè a quei primi
cinque libri della Bibbia che nella tradizione occidentale della Septuaginta
siamo soliti chiamare “O Nòmos”, cioè la Legge o, più comunemente, il
Pentateuco: con tutti i travisamenti che invariabilmente tutte le traduzioni
implicano.
All’inzio
del progetto vi era ancora un barlume di spiritualità: voler in qualche modo
ricongiungersi a Dio è il fondamento etimologico di qualsiasi religione.
“Re-ligio” dopotutto vuole proprio dire “legare di nuovo”. Si sa che la
materia, dal primo giorno della creazione, non appena separata da Dio, già
anelava a volersi ricongiungere a Lui e che l’ultimo venuto, Adam Arishon, cioè
l’uomo (Adam vuol dire fatto di mota, di fango) non aveva altra aspirazione che
di conversare quotidianamente con il suo Fattore. Conversazione che era lo
stesso che “praex”, cioè preghiera, che condivide con “presso” lo stesso etimo.
Voler
dunque appressarsi a Dio, colmando il divario iniziale della creazione, era ed
è tutt’ora la massima aspirazione cui possa anelare l’animo umano. E il fango
che aspira allo Spirito è cosa antica quanto il mondo. La torre materia voleva
ricongiungersi a Dio. Una scala per cui l’umanità poteva ascendere al Cielo,
precorritrice della Scala di Giacobbe. Tutt’altro che male. Il male è confondere
i ruoli e i confini. L’uomo e la donna − o meglio, la donna e l’uomo −
che mangiano mele per diventare come Dio o degli architetti che cercano di
perforare la volta celeste per permettere all’umanità, di nuovo, per diventare
come Dio è parto di una fissa, di un’assurda ambizione che spinge l’uomo verso
la materia nella speranza di raggiungere Dio.
La
confusione delle lingue è avvenuta dunque non quando rimanevano i presupposti
della spiritualità, ma quando questi pur deboli presupposti sono venuti meno e
la materia, anzi il materialismo, ha trionfato.
Al di là
e al di fuori della pur splendida metafora biblica, che ciascuno di noi può
interpretare più o meno mitologicamente, rimane però saldo un principio: la
babele delle lingue non è nella molteplicità delle lingue parlate dall’umanità,
ma nella confusione che si crea quando muoiono gli ideali, cioè quando l’uomo
cessa di essere “pnevma”, cioè “spirito” e diventa “bruto”. Ne consegue che il
problema vero non è tradurre o interpretare le lingue dell’uomo, ma nel trovare
un senso alle sue aspirazioni. Se queste mancano anche le lingue cessano di
veicolare messaggi, se queste trionfano gli uomini si capiscono anche al di là
e al di sopra delle lingue, del dono unico ed esclusivo dell’umanità, quello di
affabulare.
In altri
ci capiamo nonostante le lingue o nonostante l’assenza di lingue comuni quando
in noi trionfa l’ideale, che è comune a tutta l’umanità, non ci capiamo
nonostante interpreti e traduttori quando in noi trionfa l’egoismo, il materialismo,
il fango implicito in quella parola biblica “Adam”. Finché l’ideale di
congiungersi al cielo aveva trionfato la torre era cresciuta di piani e di
altezza, quando anche l’ultimo idealista finì per cedere il posto al
materialismo degli uomini conquistatori di ricchezze, di potenza, di
grattacieli, la comprensione è venuta meno e, ci dice pietosamente la Bibbia,
ci fu la dispersione, la diaspora.
In realtà
la prima conseguenza della comprensione è la cooperazione, la prima conseguenza
dell’incomprensione è la violenza, la guerra. Ciò che tiene in vita i compagni
di Ulisse non è la speranza, ma la parola di Odisseo a tal punto che Dante
elimina il ritorno fisico ad un’Itaca ormai superata e lo sostituisce con
l’ideale puro, quello di vedere le stelle si un emisfero mai visto,
ricongiungendosi così a quell’albero edenico della Conoscenza che è l’istinto
insopprimibile del seme umano.
Non
bisogna dunque avere paura della conoscenza né delle lingue che veicolano
quella conoscenza, e se il suono di una lingua incomprensibile ci riempie di
sgomento quando siamo in terra straniera, bisogna pur ricordarci che dietro
quei suoni c’è l’umanità, la splendida umanità animata da una comune legge, da
una comune aspirazione, da una comune capacità, quel jus naturalis gentium che il nostro Giambattista Vico pone come
fondamento del vivere e del convivere civile, al di là di ogni possibile
divisione per cause religiose o razziali. Siamo un solo popolo, con lingue
diverse. Conoscere, studiare, decifrare queste lingue, lasciarsi inondare dagli
sterminati campi semantici che esse evocano significa conoscere l’umanità,
significa fare il viaggio di Ulisse e salire e scendere per la scala di
Giacobbe. Ma è lo spirito che deve guidarci, il “Geist” hegeliano, il “pnevma”
platonico, e i suoni delle lingue piuttosto che semantemi debbono essere per
noi musica, i 104 semitoni della scala eptatonale, che ci riporano ai 264 suoni
di cui è capace l’apparato fonetico umano. Ma mentre i suoni musicali ci
portano a visioni e a contesti universali, mai calati nel realismo del vivere
concreto, i suoni fonetici ci danno proprio quello: la realtà planetaria così
come vissuta dall’umanità, come sperimentata dalla pianta uomo da quando,
trentamila anni fa, ha cominciato ad articolare suoni che gli hanno consenito
di comunicare, di dominare su ogni altra specie, di comporre opere come la
Thorà e l’Odissea.
La mia
Odissea, il mio viaggio nelle lingue dell’umanità è cominciato con una
traversata oceanica, su una nave dal nome magico, “The Seven Seas”, “I sette
mari” con la quale me ne andavo verso nuovi mondi, lontano dalla bassa
vercellese, dal mio piccolo dialetto piemontese, attraverso tutto l’Atlantico e
poi il Pacifico, tante miglia e tanti fusi orari da non ricordarmi più neppure
chi ero, da dove venivo e cosa volevo. Ma in realtà qualcosa volevo. A
diciassette anni è quasi sempre un sentimento confuso, ma pur presente. Volevo
imparare nuove lingue, diventare esperto del mondo e della gente. Quel viaggio
doveva terminare quasi mezzo secolo dopo, quando sono tornato nel mio paese di
origine, con qualche lingua ed esperienza in più e con un’identità ritrovata.
Chi come Giuseppe il nutritore non scorda la lingua dei padri ritrova sempre sé
stesso. E Giuseppe, si sa, aveva fatto carriera rapidamente perché oltre a non
scordare la lingua dei padri aveva imparato bene anche quelle dei “goìm”, cioè
degli altri, di coloro che non potevano sapere la sua lingua, non potevano
scoprire la sua umanità e identità profonda. E con le lingue aveva imparato a
conoscere anche l’umanità, tant’è che riuscì ad interpretare sogni e
aspirazioni di plenipotenziari e faraoni nutrendo anche in più l’umanità
affamata, segno che la cultura, alla lunga, si trasforma anche in potere e
ricchezza, in barba a chi vorrebbe far sì che la filosofia se ne va in giro
nuda e anoressica.
Era stato
Turghenieff che a Parigi, in esilio, aveva scritto il più ben brano mai
composto sulla forza rivitalizzante della propria lingua madre: se non fosse
stato per lei e dal potere identitario che da essa emanava egli si sarebbe
perso per sempre, come uomo, come scrittore, come individuo. Grazie ad essa non
solo mantenne la propria identità e salute mentale, ma riconquistò anche l’arte
e la patria perduta.
A metà
circa del mio viaggio in cerca delle lingue degli altri mi imbattei in un
personaggio che doveva cambiare per sempre il corso della mia vita.
Ero nel
mezzo delle praterie canadesi, a Winnipeg, un posto così sperduto che solo a
contemplare dalla finestra del palazzo di cemento armato nudo la campagna
desolata che si estendeva al di là del vetro ermeticamente chiuso mi sentivo
venire il giracapo. Mi pareva di sprofondare nel buio e nel vuoto, il buhù tahù
biblico. Nella mensa affollata mi ero casualmente seduto di fronte ad un
gigante scandinavo, barba e capelli biondicci e lunghi, corporatura possente.
Lo salutai per dovere di cortesia. Mi chiese se ero britannico, dal mio
accento. Gli risposi che ero italiano. In perfetto italiano mi chiese di che
regione. Piemonte. In uno splendido accento torinese mi chiese se parlavo
ancora piemontese. Gli risposi in piemontese. Due mesi dopo ero ad Alba per il
mio primo convegno di studi sulla lingua e la letteratura del Piemonte, di cui
fino ad allora avevo del tutto ignorato l’esistenza. Parlavo il dialetto, non
la lingua piemontese. Avevo appena fatto la conoscenza di uno dei più grandi
linguisti, titolare della cattedra di quella disciplina a Toronto, e direttore
di varie riviste e convegni annuali. Avrei fatto il magico ritorno nella
“patria pcita”, nella “patria piccola” per ben ventidue anni, ogni volta con un
nuovo autore da presentare, ogni volta con la musica nel cuore mentre mi recavo
per le vie di Alba verso la sala in cui nel 1944 Alba si era eroicamente
dichiarata Repubblica libera e indipendente per 23 lunghi giorni.
Fino a
quell’incontro a Winnipeg, nel luogo più lontano come valori e aspetto da tutto
ciò che io in cuor mio chiamavo “patria pcita”, io avevo parlato slavo e
germanico, neoellenico e celtico ed avevo imparato così mimeticamente bene il fracese
e l’inglese da conoscerne anche le varie pronunce e accenti. Ma avevo anche
imparato a conoscere la realtà, dura e devastane, dei popoli amerindiani,
inouit, cree, irochesi, moicani, algonchini, montagnais, mic-macs, il loro
alcolismo, il loro abbrutimento, la loro lenta riconquista delle lingue
ancestrali e la loro faticosissima riconquista della propria identità e
dignità. Da loro avevo capito che dietro ad ogni alcolizzato, ad ogni
mendicante, ad ogni alienato, si cela un uomo, potenzialmente capace di
ritornare sé stesso, di dire parole savie, di compiere opere splendide. Ed
avevo cercato, come meglio potevo, di aiutarli in questo loro ritorno
all’ancestralità, capendo che la riconquista della loro lingua era la
primissima vittoria per la riconquista di tutto il resto. La lingua dei padri
come salvezza, come medicina, così come lo era stata per Giuseppe il nutritore
e per Turghenieff.
Ed ora,
dopo l’inconto di Winnipeg, toccava a me. Non andare per i sette mari ad
imparare lingue remote, ma ritornare nel seno della mia terra per imparare a
leggere, a scrivere, a parlare la ricchissima lingua dei miei avi così come mai
l’avevo parlata e conosciuta prima.
E fu ad
uno di questi incontri annuali che ricevetti l’invito a visitare i “minori”,
coloro che non scrivevano nella koiné
sabauda, elegante e dotta, ma nei vari dialetti della Valsesia. Ci andai. A
quell’incontro di poesia locale feci la conoscenza di un gruppetto di
valligiani di lingua tedesca. Mi chiesero di parlarmi e mi esposero il loro
caso. La loro lingua stava morendo. Ne avevano raccolte le parole su foglietti
e pagine volanti. Volevano farne un dizionario. Non sapevano come. Era il 2000,
l’anno in cui Claude Hagège,[1]
David Crystal,[2] Daniel
Nettle e Suzanne Romaine,[3]
i grandi specialisti della conservazione e rivitalizzazione delle lingue
minoritarie, quasi per magica concertazione avevano pubblicato i loro libri
pieni di dati allarmanti sula sparizione delle lingue planetarie. Non eravamo
ancora ai dati circostanziati di David Harrison, che ci ha dato il suo libro
nel 2007, aprendo la via a tutta una serie di studi della “seconda
generazione”. Ma c’era già abbastanza nell’aria per non lasciarsi sfuggire un
caso come quello che mi stava di fronte.
Vestiti
nei loro costumi tradizionali, dolci e volenterosi come pochi, chiedevano solo
di poter conservare la propria lingua prima che sparisse. Da chi avevano avuto
l’idea che proprio io potessi aiutarli, capire la loro antica lingua germanica,
sapere tutto quello che occorreva sapere di lessicografia per dare loro
manforte? Avevano la fiducia di chi non ha più nulla da perdere. Ecco che la
Babele si riproponeva nella sua forma più spirituale: gli ultimi locutori di
una lingua, gli ultimi testimoni di una civiltà, chiedevano di non morire nella
memoria umana.
Era
ottobre. A dicembre presi un aereo a Montréal e ritornai in Italia, nella
piccola comunità alpina di Alagna Valsesia, ovvero Im Land Tseschrutol, come la chiamano loro, che l’hanno chiamata
così prima che qualsiasi altro chiamasse l’alta vallata con un nome. Iniziava
la grande esperienza che sull’arco di sette anni doveva portare alla stesura
del più grande dizionario mai apprestato di una lingua ancestrale. Uno per uno
vi trovarono posto non solo i nomi di tutti gli attrezzi, di tutti gli animali,
di tutte le piante, le erbe e i fiori, di tutte le operazioni di panificazione,
di mungitura e preparazione dei formaggi, di costruzione delle case, di
tessitura della canapa, della lana e del lino, ma a poco a poco vi entrarono
anche le parole della religione, del tempo, della memoria, delle borgate, delle
case non più abitate, dei torrenti, delle cime, e poi ancora dei sentimenti,
del pensiero, delle fiabe.
Applicando
le tecniche già usate per le tribù amerindiane, e altri accorgimenti adatti alla
cultura e agli scritti già esistenti di questo straordinario popolo, poco per
volta il dizionario prendeva corpo, con lunghi inserti enciclopedici, con
lunghe descrizioni di presenze e assenze, peculiarità e rarità, che fanno di
questa lingua, piccola e marginalissima, la lingua centrale e insostituibile di
una civiltà d’alta montagna, la lingua Titzschu,
la lingua Walserdeutsch come lingua centrale di mille anni di sopravvivenza ad
alta quota, di vittorie e sconfitte dei colonizzatori dell’estremo.
Come già
Tamoussi, l’eschimese dai polmoni bruciati dal gran freddo che non poteva più
cacciare, aveva dettato quasi 40.000 parole ai missionari che lo ascoltavano
storditi da tanta varietà terminologica, così anche gli anziani Walser hanno
fornito dalle scorte dei loro ricordi nomi minuziosi per ogni cosa del loro
universo, anche loro prossimi ai 40.000 termini, come gli Eschimesi, come loro
eroici sopravvissuti di climi che non conoscono né pietà, né eccezioni, liberi
perché dove loro sono nemmeno le acquile rimangono tutto l’anno. Liberi per
esclusione di tutto il resto dell’umanità, liberi perché nella loro lingua la
parola schiavitù non esiste.
40.000
parole. Solo William Shakespeare ne ha usate altrettante per la stesura delle
sue opere. Dante e Molière più di trentamila. Gli adolescenti di oggi poco più
di tremila.
Nella mia
corrispondenza con Gianrenzo Clivio, il linguista di Toronto che mi aveva
riportato alla mia lingua ancestrale, segnalavo questo fatto. Lui insisteva che
lo spostamento delle popolazioni dal contado alle città comportava la
sostituzione delle parole agresti con un numero uguale di parole urbane. Io
constatavo invece che il passaggio dalla lingua ancestrale a quella nazionale
comportava non solo la perdita di competenze specifiche di dialogo e di
sopravvivenza ambientale, ma anche l’obliterazione di intere categorie
lessicali, non sostituite con altre parole, perché il rapporto con la natura e
il rapporto con le merci esposte sugli scaffali di un supermercato non
implicano la stessa competenza lessicale. È un peccato che Gianrenzo Clivio sia
venuto a mancare prematuramente, perché certo qui si sarebbe potuto dialogare e
addirittura quantificare lo scapito linguistico nella delicata fase di
assimilazione delle culture ancestrali alla cultura nazionale.
La mia
presenza tra i Walser comportava dunque riflessioni profonde sulle lingue
planetarie e sulla sparizione su scala mondiale delle parlate ancestrali.
E, in
ambito italiano, il peso che queste lingue ancestrali, chiamate impropriamente
dialetti, avevano veramente avuto nella cultura popolare. Si pensi solo al
fatto che nel 1861, l’anno di unificazione manu
militari dell’Italia, meno dell’1% della popolazione della penisola capiva
l’italiano e meno dello 0’5% lo parlava. Si pensi che vi erano più persone a
Vienna che capivano l’italiano dei melodrammi metastasiani e dei libretti
mozartiani che nell’intera Italia del Nord. Teatro, lirica, fiabe, per non
menzionare il romanzo e il giornalismo per lingue come il piemontese, erano
stati esclusivamente veicolati in dialetto, non in lingua nazionale e poeti
come il Foscolo dei Sepolcri o l’Alfieri della Mirra o del Saul non sarebbero
mai stati capiti dal popolo italiano, neppure nei due secoli successivi.
Chi tra
di voi che è lombardo non riconosce versi come quelli della «scoeura de lengua
del Verzee»:
Moros danaa, tradii de la morosa,
pien de loeuj, de fastidi e pien de corna,
sercemm chi tucc d’intorna,
stee chì a sentì l’istoria dolorosa
del pover Marchionn,
del over Marchionn che sont mì quell,
striaa e tiraa a bordell
da la cappa d tucc i bolgironn!
Chi
avrebbe osato introdurre nei licei degli anni Cinquanta il personaggio e il
linguaggio de La nineta del Verzee?
Eppure Dante Isella, uno dei più autorevoli critici del romanticismo italiano,
non ha esitato a chiamare Carlo Porta il più grande poeta del romanticismo, non
solo per la sua poesia, ma anche per i suoi discorsi − tutti in milanese −
sul romanticismo. Ed è stato anche l’unico poeta romantico ad aver messo da
parte l’io esasperato del Leopardi per scrivere il romanzo in versi, l’unico
che noi potremmo mettere in campo contro altri romanzi in versi come The Pilgrimage of Childe Harold di
George Gordon Byron e l’Evghenij Oneghin
di Alexander Serghejevich Pushkin.
E chi in
versi come questi riconoscerebbe la lingua d’origine?
Sua tenebrosa Maestà la Noia / vestita di nebbia e
incoronata di mistero / ora m’impone sulla fronte le sue mani evanescenti / e
un tedio denso mi penetra nel cervello.
Una musica remota di miserere. / Un roseto d’ore gialle
che si sfoglia. / E nelle acque stagnanti dei giardini della Noia / annegano le
mie speranze prigioniere.
Bastioni folti d’edere cancelli chiusi / con muffe e
serpi attorte alle inferriate / circondano il Castel Fosco ove soffoca la mia
vita.
Via! ... Poter evadere da questa landa paludosa / in cui
sprofondano le mie gioie avvinghiate ai miei dolori. / E poter avventare al
cielo un grido d’amore:
– Oh torna, Libertà, / a ritemprare la tua spada-croce in
un rogo di fiori. / Sorella di Giovanna d’Arco, lucífera di Nostro Signore!
Ed ecco
l’originale:
Soa tenebrosa Maestà
vestìa ’d nebia e ancoronà ’d mistere
adess am pòsa an front soe man legere
e un morbìn sombr ant ël sërvel më sleuja.
Na mùsica lontan-a ’d miserere.
Un rosé d’ore giàune ch’as dësfeuja.
E ant j’eve mòrte dij giardin dla Neuja
a nijo mie speranse përzonere.
’D bastion ëd brassabòsch, cancej sarà
con mofe e serp torzuve su le frà,
ansèrcio ’l Castel Fósch doa stenz mia vita.
Irt! ... Podèj seurte da ’sta vàuda ’d nita
dont a fongo ambrassà gòj e dolor.
E podèj frandé al cel un crij d’amor:
– Oh torna,
Libertà,
a tëmpré toa spa-cros ant un reu ’d fior.
Seure ’d Jeanne d’Arc,
lussìfera ’d Nosgnor!
È una
poesia del 1937 e questa è la lingua della grande fioritura lirica de Ij Brandé, i felibre piemontesi e più precisamente il piemontese di Luigi
Olivero in una poesia dedicata ad André Malraux e intitolata Soa tenebrosa maestà la neuja.
La verità
è che sappiamo molto poco delle lingue ancestrali e crediamo di conoscerle solo
perché ci rimangono poche parole di dialetto mescolato all’italiano e crediamo
che quei miseri avanzi siano tutto quello che c’è mai stato di milanese o di
piemontese, mentre invece quelle erano lingue con un lessico completo per il
lavoro, il commercio, l’agricoltura, ma anche la vita sentimentale, spirtuale,
e comunque i migliori veicoli per portare sino a noi intatta la vita del
passato ed arricchire così il nostro presente.
Ora,
davanti a questi anziani che mi fornivano un lessico superiore a quello dei più
grandi scrittori europei mi veniva fatto di chiedermi con quale diritto
chiamavamo lingua quella della gioventù americana e italiana e dialetto quello
degli eschimesi e dei walser.
Le mie ricerche
mi portarono a scoprire dei dati veramente allarmanti sulla situazione
linguistica planetaria.
Ve ne
presento alcuni per sommi capi:
Gli
ultimi locutori di metà delle lingue del mondo sono tutti oltre i sessant’anni di
età. Quando essi spariranno se ne andrà con essi metà delle lingue del mondo,
estinte
per sempre
La
stragrande maggioranza delle lingue del mondo non è mai stata codificata o
registrata.
Nell’anno
2001 non meno di 6.912 lingue distinte erano parlate su scala mondiale.
Di queste
204 avevano meno di 10 locutori.
344
avevano tra 10 e 99 locutori.
Le lingue
con meno di 99 locutori costituiscono un decimo delle lingue di tutto il mondo.
Anche
lingue con molti più locutori, come il piemontese o il friulano, possono essere
a grave rischio, poiché le dimensioni della popolazione dei locutori di per sé
non è una garanzia di sopravvivenza.
Al ritmo
attuale perdiamo tra una e due lingue a settimana.
Dovunque
nel mondo il ritmo di commorienza si sta vertiginosamente accentuando.
Dizionari
e grammatiche possono conservarci le parole, gli idiomi e le morfologie di una
lingua, ma non la civiltà che essa veicolava.
Il ritmo
di estinzione delle lingue non ha precedenti nella storia del genere umano.
Secondo
le stime più attendibili dei botanici e degli zoologi, a partire dall’anno 1600
il pianeta ha perso 484 specie animali e 654 specie di piante. Ciò costituisce
solo il 7% del totale degli animali e delle piante identificati e classificati.
In confronto il 60% delle lingue che spariranno nei prossimi tre o quattro
decenni è statisticamente dieci volte di più dell’estinzione delle specie
botaniche e zoologiche. Le lingue sono molti più in pericolo dei volatili
(11%), mammiferi (18%) o piante (8%) nello stesso periodo di tempo.
La
sparizione delle lingue comporta la sparizione di idee originali, di modi di
conoscenza del mondo e delle sue leggi, di modi di vedere e concepire il mondo
animato e mitologico. Nel 2001 il linguista americano Ken Hale, che lavora
sulle lingue in pericolo, ha affermato in un’intervista che: “When you lose a
language, you lose a culture, intellectual wealth, a work of art. It’s like dropping a
bomb on a museum, the Louvre.”
In Italia
vi sono 300 lingue ancestrali in serio pericolo. Alcune di esse sono ex lingue
di stato, come il sabaudo e il veneziano. Altre illustri veicoli letterari,
come il napoletano, il siciliano, il meneghino e il romanesco. Moltissime non
hanno né letteratura, né documentazione lessicale o morfologica. Se non si
agisce ora, l’Italia perderà il più ricco patrimonio linguistico ancestrale
d’Europa nei prossimi 30 anni.
L’Italia
è il fanalino di coda in Europa per la conservazione delle lingue ancestrali.
La Spagna è la prima.
In Italia
come altrove intere generazioni rigettano la lingua dei genitori o dei nonni
senza spostarsi su nuovi territori.
Il
rigetto della lingua ancestrale non comporta una migliore padronanza della
lingua nazionale o della nuova lingua di adozione. Quasi sempre, anzi, è vero
il contrario: chi parla una lingua ancestrale parla molto più creativamente la
lingua nazionale o la nuova lingua di adozione. In altre parole chi parla un
dialetto fin da bambino parla poi più creativamente la lingua nazionale.
Il tasso
di reddito pro-capite tra le popolazioni bilingui è sempre più elevato di
quello delle popolazioni monolingui attigue o frammiste.
Quando un
popolo o una generazione abbandona la propria lingua ancestrale diventa
culturalmente assimilato: perde la sua individualità e unicità ed entra a far
parte della stragrande maggioranza dei locutori anonimi. Non è possibile
mantenere un’identità regionale o nazionale senza conservarne la lingua.
Per
l’Italia il caso è più acuto, poiché l’italiano non è lingua connaturata e di
lunga data come il francese in Francia, lo spagnolo in Spagna o l’inglese in
Inghilterra. La perdita delle lingue ancestrali in Italia avrà conseguenze non
solo sui dialetti, ma anche sull’italiano.
Di solito
il rigetto di una lingua ancestrale comincia con una discriminazione culturale,
politica, economica o sociale. Far sentire come paria, inferiore, analfabeta,
sprovveduto, chi parla un dialetto è il modo più rapido e più efficace per
costringere chi lo parla a nascondersi, a parlarlo in segreto, solo in certi
ambienti, a non insegnarlo ai propri figli o ai propri nipoti. In altre parole
l’interruzione del normale processo di trasmissione generazionale di una lingua
è molto raramente la conseguenza di una scelta libera e spontanea.
L’idea
che il dialetto non valga la pena di essere trasmesso ai figli e ai nipoti è
così prevalente che la dismissione avviene anche là dove non vi è più
discriminazione e molti genitori e nonni ad un certo punto si chiedono perché
non hanno insegnato la lingua ancestrale ai loro discendenti, e non sanno il
perché.
Paradossalmente
sopravvivono meglio le lingue dei popoli pochissimo o moltissimo colti. Nel
Nordamerica la lingua più diffusa dopo l’inglese è lo spagnolo degli immigranti
semianalfabeti del Centro e del Sudamerica. Altrettanto dicasi del cantonese.
Una generazione fa il russo prerivoluzionario degli intellettuali e nobili
russi era una delle lingue più insegnate all’interno dei focolari domestici
interessati, che erano anche quelli con il tasso di alfabetizzazione e di
cultura più elevati. In ogni caso tra i popoli culturalmente più consci e più
preparati ci sono gli ebrei, che in tutto il mondo immancabilmente insegnano la
lingua ancestrale ai propri discendenti, sia per ragioni religiose che per
ragioni culturali e ancestrali.
Ci sono
discipline e strategie specifiche per la conservazione e la rivitalizzazione
delle lingue. Basti menzionare libri come How to
Keep Your Language Alive e The Green
Book of Language Revitalization in Practice di Leanne Hinton. Ma nessuna tattica o strategia o intervento esterno
possono salvare una lingua se un popolo decide di non parlarla più.
Tra gli
europei gli italiani sono il popolo che perde più lingue e ne impara di meno.
L’italiano nazionale perde in media tra 40 e 70 parole chiave all’anno,
sostituite da parole inglesi mal pronunciate, mal capite e male inserite nel
contesto sintattico e semantico dell’italiano superstite. A differenza della
Francia e della Spagna o anche della Provincia Canadese del Québec, che hanno
accademie della lingua ed organi regolatori, l’italiano non è protetto neppure
dal governo che è tra i primi utenti di parole straniere mal capite ed
erroneamente usate. (Il Ministro del Welfare è uno sproposito, poiché Welfare
nel linguaggio anglosassone ed americano è un istituto sociale che si prende
cura degli ubriaconi e dei derelitti, passando loro un sussidio mensile.
L’espressione “To be on welfare” è un’ammissione vergognosa da parte di chi è
socioassistito: significa che non può badare a sé stesso, che è un parassita
sociale. Quando il Ministro del Welfare italiano va all’estero e si presenta
con questo suo glorioso titolo agli orecchi di chi veramente parla inglese il
suo titolo suona come “Ministro degli Straccioni e dei Barboni.” E forse, se
l’Italia continua per questa strada, lo diventerà per davvero.
La
documentazione di una lingua ancestrale senza alcune precedente documentazione
costa all’incirca 200.000 Euro tra dizionari, grammatiche, costi di stampa,
raccolte di letteratura, registrazioni e presenza quinquennale di uno o più
studiosi sul campo di operazione.
Le dieci
più grandi lingue al mondo comprendono il 60% dei 6,34 miliardi di abitanti del
pianeta terra. Se arriviamo a includere le prime 83 lingue, includiamo il 90%
della popolazione mondiale. E pertanto più di 6.000 lingue sono parlate solo
dallo 0,2% della popolazione mondiale. Metà delle lingue del mondo hanno meno
di 5.000 locutori, che è ben al di sotto della soglia di sicurezza linguistica.
Insomma sta avvenendo per gli esseri umani quello che sta avvenendo per le
piante: la monocultura su vastissimi territori.
L’altra
causa di sparizione delle lingue è l’urbanizzazione. Da qui all’anno 2030 più dell’80%
della popolazione mondiale vivrà in una quarantina di megalopoli dove le lingue
ancestrali non hanno né posto, né possibilità di sopravvivenza. Con esse
moriranno usi, costumi, tradizioni, cucine tipiche, proverbi, modi di dire,
individualità dell’essere umano in genere.
Tornando
alle specie animali e vegetali, è sorprendente il fatto che l’87% di tutte le
specie non sono ancora state identificate, nominate, descritte o classificate.
Ma è certo che tutte le società primitive che dipendevano dalla natura per la
loro sopravvivenza avevano nomi per ogni animale, erba, pianta o albero, e ne
conoscevano le virtù o i pericoli e il rapporto che si poteva stabilire tra
stirpe umana e natura.
La
maggior parte, cioè quasi il 90% di quello che il genere umano conosce del
proprio mondo, non è registrato nei testi scolastici, scientifici, nei
database, ma solo nelle memorie dei popoli che parlano lingue ancestrali. Con
la perdita di queste lingue perdiamo la più grande porzione di conoscenze e di
capacità di interazione rispetto al pianeta che abitiamo.
Il
passaggio di un popolo da una lingua ancestrale ad una lingua veicolare o
globale non comporta il trasferimento delle conoscenze ancestrali nella nuova
lingua. L’abbandono della lingua ancestrale è una perdita totale delle
conoscenze legate a quella lingua e una perdita definitiva per il genere umano.
La pianta
uomo non può vivere senza una tradizione ancestrale. La sostituzione delle
fiabe con giochi elettronici o di lingue ancestrali con lingue da aeroporto, da
computer o da scambio commerciale lede e depaupera la società umana, che si
trova priva del suo patrimonio culturale più antico sostituito da miti di
celluloide che in nessun modo possono sostituire il patrimonio di letteratura
orale e di letteratura scritta accumulato sull’arco di tre millenni.
Satá:ti ne sawén:na kanien’keha
skwenienhst tsi nitisé:non tsi
sonkwehón:we
Parla la tua lingua
sii orgoglioso della tua ancestralità
Parla la tua lingua
difendi la tua identità
non dimenticare il tuo passato
Schwetz dini sproch
werr dini ljitaigenschaft
tua nid vergasse dini eltruzid
[1] La sua opera principale, Halte à la mort des langues, Paris: Éditions Odile Jacob, 2000, 381 pp., è un vero e proprio repertorio di tutte le lingue del pianeta, delle varie strategie adottate per salvarle, con una conoscenza linguistica specifica che rasenta il miracoloso. È soprattutto da questo libro che abbiamo desunto le nozioni ed i criteri sulla neologia dal capitolo intitolato De quelques particularités de l’hébreu istraélien, Une entreprise unique dans l’histoire des langues, pp. 301-321, mentre il capitolo successivo, Renaissances, langues nouvelles, créoles, promotions ci ha fornito non pochi ragguagli sulla rivitalizzazione linguistica. Sempre sulla rivitalizzazione linguistica vorremmo rinviare anche al recentissimo volume di Paolo Coluzzi, Minority Language Planning and Micronationalism in Italy, Oxford, Bern, Berlin, Bruxelles, Frankfurt am Main, New York, Wien: Peter Lang AG, 2007. 348 pp.
[2] Autore fondamentale, di cui si cita soltanto il libro Language Death, Cambridge: Cambridge University Press, 2000. 198 pp., che nonostante il titolo sinistro è in realtà una rassegna delle varie tecniche di rivitalizzazione e dei risultati ottenuti. Tanto il libro di Hagège che quello di Crystal sono densi di dati e di statistiche che aiutano a quantificare i fenomeni di commorienza linguistica attorno al pianeta e a preparare strategie di intervento. Crystal segnala perfino le cifre in dollari che occorrono per documentare una lingua e per rivitalizzarla.
[3] Autori
di un fondamentale libro intitolato Vanishing
Voices, The Extinction of the World’s Languages, Oxford: Oxford University
Press, 2000. 241 pp.