4 aprile – 24 luglio 2008
A
piedi da Saronno a Santiago de Compostela
Oltre 3 milioni di passi tra luoghi, storia, miti, leggende e spiritualità. Un pellegrino alla
soglia del III millennio.
Durante il mio
cammino ho incontrato molte persone, in particolare
giovani, che si ponevano domande sul significato di essere pellegrini nel XXI
secolo.
Queste domande
nascevano da diverse motivazioni: devozione, fede, spiritualità, curiosità
culturale…. Nel mio caso la motivazione iniziale è stata la curiosità
culturale, il fatto di camminare percorrendo vecchi sentieri di
antiche vie romane e medioevali mi affascinava.
Una
curiosità che mi ha fatto scoprire molto altro. Per esempio, che
camminando si scandiscono le ore, i giorni, i mesi più o meno velocemente,
secondo i propri desideri e la propria curiosità il
cammino può essere eseguito in modo affrettato o rallentato.
Che
camminare è un istinto, un desiderio, una vocazione; muoversi sul terreno,
scoprire l’ambiente, vedere cose nuove, incontrare gente diversa è un’esigenza
che soddisfa bisogni profondi. E ancora, camminare è una pratica che
risale alla notte dei tempi, quando l’uomo non aveva
ancora coscienza di sé: milioni d’anni fa i nostri progenitori si spostavano
già sulla superficie terrestre, e, con l’andare del tempo, riempirono di
significati culturali quell’atto istintivo per la sopravvivenza.
Il cammino mi ha
fatto comprendere in prima persona che cosa significa spostarsi senza muovere
un passo: è quello che accade nei paesi ricchi, dove si viaggia, ci si sposta
in modo tanto facile da non accorgersi quasi di transitare da una faccia
all’altra della Terra. Camminare oggi diventa sempre più una questione di
scelta, mirata a soddisfare raffinate esigenze culturali e come tale
interpretabile in tanti modi diversi.
Scrittori, filosofi
hanno raccontato molte riflessioni intorno al piacere del camminare, traendo
spunti anche dalle loro esperienze personali, una nuova arte di vivere la
propria avventura interiore.
Anche per me camminare ha
significato cominciare a cogliere l’occasione per fare il punto sul proprio
modo di vivere, a prendere in considerazione la reale possibilità di combinare
il vivo desiderio interiore con il piacere dell’esistenza.
Camminare significa
muoversi contando solo sulle proprie forze, osservando particolari,
raccogliendo suggerimenti del mondo esterno e stabilendo un contatto sincero
con le considerazioni sulla propria vita e sul modo di condurla.
I luoghi che ho
visitato, il panorama che ho incontrato sono armoniosi, tutto è reso più lento,
le immagini si sono avvicendate in modo ordinato e senza sfumature, non come i
paesaggi visti dal finestrino di un treno o seduti in
auto attraverso il parabrezza.
Camminare dunque
come passione, gusto di scegliere, arte, modo di vivere: questo è stato il mio
cammino da “Pellegrino”, con l’obiettivo di interpretare pienamente la
condizione itinerante dell’uomo viaggiatore.
“Fare il pellegrino”
è stata per me una scelta personale: sono entrato in uno spazio diverso, con
ritmi, esigenze, conoscenze, esperienze nuove rispetto a quelle della
quotidianità familiare e sociale nella quale fino a quel momento ero vissuto. Ho potuto sperimentare un nuovo rituale,
incentrato sul distacco e sulla cerimonia della partenza e sulla frattura che
si è gioco forza determinata tra la vita ordinaria e la mia nuova condizione
“itinerante”.
Non a caso, la
stessa definizione di “Peregrinus” indica la non appartenenza ai luoghi che si
attraversano.
Una condizione che posso dire di aver vissuto: questa diversità, questa
estraneità dai Paesi che ho attraversato ha fatto nascere in me un forte senso
d’identità con coloro che percorrevano con me la
stessa via e che condividevano il medesimo destino: così sono nati eccezionali
vincoli che permangono anche oltre la fine del pellegrinaggio.
Sono entrato a far
parte di una “Societas” sovranazionale,
che non ha regole scritte, ma affinità, segni di identificazione,
interessi e necessità comuni, quasi una nuova e più complessa civiltà nella
quale il pellegrino italiano o quello spagnolo, quello tedesco o quello
francese, quello inglese o quello americano si riconoscono; una societas di persone di provenienza, di condizione sociale,
di culture diverse, che per mesi ha una meta e problemi in comune. Che non ha
nessuna regola scritta, ma consuetudini, simboli e comportamenti trasmessi
dalla tradizione e garantiti, mantenuti vivi dalle particolari strutture sorte
intorno ai pellegrini e al Cammino, come in Spagna gli “albergue”, centri di accoglienza presenti su tutto il cammino paragonabili ai
nostri ostelli, gestiti da hospitaleros volontari
appartenenti a confraternite o associazioni spagnole di sostegno al Cammino di
Santiago.
Proprio in Spagna,
in particolare lungo la via lattea (cammino di Santiago de Compostela), ho
scoperto che luoghi, natura, arte, storia e spiritualità tendono a essere tutt’uno.
Spesso il termine
“spiritualità” viene equiparato alla “fede religiosa”,
ma anche i non credenti rivendicano una propria dimensione spirituale, di
meditazione e riflessione.
Sul Cammino ho
vissuto la spiritualità. Una spiritualità aperta alla ricerca e basata
sull’esperienza personale, sul presupposto che ogni persona è diversa dalle
altre, che la scelta è spesso lasciata all’individuo, alla sua sensibilità e
alla sua capacità critica, anche nei confronti di se stesso, secondo una inevitabile, continua e soprattutto necessaria
autocritica.
Perché,
come dicevo all’inizio, per affrontare un cammino di circa quattro mesi occorre
essere determinati, un cammino di oltre 3 milioni di passi è uno sforzo psico/fisico prolungato che si affronta soprattutto con la
“testa”.
Pioggia (ha piovuto
per circa due mesi), freddo (in particolare durante il passaggio delle Alpi) e
caldo (come quello delle mesetas) sono
stati i miei compagni di viaggio. È stato il cervello, con le mie convinzioni,
a farmi accettare allo stesso modo entusiasmo e scoramento.
Il cammino, per me, è stato soprattutto un fatto privato, ma può diventare
formativo per i giovani, prima dei più importanti cambiamenti della loro vita.
Tra miti, leggende e
tradizioni, sul cammino se si è fortunati si possono trovare persone speciali,
come quelle che ho avuto la fortuna di conoscere io:
tra queste, Ramón López Caneda, un pellegrino hospitalero
itinerante, nonchè professore di storia dell’arte
all’università di Gran Canaria, una persona di grande
umanità con una grande devozione verso San Giacomo il Maggiore. Con lui ho
camminato in terra di Spagna, e grazie a lui ho vissuto il Cammino in modo
molto suggestivo, sotto molti aspetti poco conosciuti
ma fortemente legati alla tradizione e alla storia della “Via Lattea”.
Angelo Basilico